di Veronica Magli
Spostare il centro: nuove reti e piazze della ruralità appenninica bolognese
“Per recuperare l’urbanesimo come il terreno adatto all’associazionismo, alla cultura, alla comunità, la megalopoli deve essere distrutta senza pietà, e sostituita da nuove comunità decentrate, ognuna inserita con cura nell’ecosistema di cui fa parte.”
Murray Bookchin, The limits of the city, 1974
Lessi per la prima volta la citazione che ho riportato sopra qualche anno fa, all’interno del libro “Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente”, di Andrea Staid, docente di antropologia, ricercatore e autore. Nel libro Staid esplora alcune differenti pratiche dell’abitare informale, decentrato, sovente marginalizzato, dall’Europa agli Stati Uniti, “dalle case occupate italiane ai wagenplatz tedeschi, dai villaggi rom e sinti del nord Italia ai pueblos ocupados in Spagna”, fondamentalmente per ragionare sulla relazione tra l’essere umano e il luogo che abita e, ancora di più, sul come lo abita. “Nella maggior parte degli abitanti della città informale, degli ecovillaggi la propria casa non è quasi mai staccata dall’ambiente che la circonda ma lo modella, lo crea e vive in sintonia con esso.”
Inizio questa analisi dalla dimensione dell’abitare, dal concetto di casa, perché forse soltanto partendo dal confine più intimo delineato (più o meno consapevolmente) tra l’essere umano e il tutto che è attorno, riusciamo a comprendere più da vicino i dualismi esistenti a livelli più ampi: il dentro e il fuori, il formale e l’informale, il centro e il margine, l’urbano e il rurale, l’individuale e il collettivo. E arriviamo a tracciare le linee di raccordo che ci possono fare intravedere le geografie spaziali in formazione e contemporanee, e le nuove forme di comunità che su queste geografie si inseriscono per ridisegnare un esistente in continua evoluzione. Penso spesso a questi concetti da quando mi sono trasferita, qualche mese fa, sull’Appennino Bolognese e, precisamente, in una piccola frazione che fa capo al Comune di Marzabotto, Città di pace, come si legge sul cartello di benvenuto lungo la strada statale che percorre tutta la Valle del Reno, da Bologna al comune di Sambuca Pistoiese, porta di entrata nella confinante Toscana e passaggio obbligato per raggiungere Pistoia.
Proprio a Sambuca Pistoiese, nel 1980, trovò la sua casa il popolo degli Elfi, “una comune diffusa tra le montagne pistoiesi” nata da “giovani in fuga dalla città che ricercavano un rapporto diretto con la natura in completa autonomia”. Una delle più longeve comunità intenzionali di Italia. Da quegli anni tante altre comunità sono fiorite, su questo territorio come in tutto il Paese, persone che migrano dalle città per riscoprire e ritrovare stili di vita più consapevoli e più sostenibili. Per rigenerare e rigenerarsi. E così si ripopolano i piccoli borghi disabitati, si riprendono in mano i saperi antichi, ritornano sulle tavole i cibi contadini, ci si organizza in forme di mercato indipendenti, dai Gruppi di Acquisto Solidale alle CSA (Comunità che Supportano l’Agricoltura), si ripensano le forme di scambio e socializzazione, di confronto e dibattito, si avviano Asili nel bosco e scuole libertarie, si ridà spazio alle varie forme di autoproduzione e si immaginano nuove strade e nuove piazze (fisiche e virtuali) per mettere al centro la condivisione e lo scambio, oltrepassando le barriere spaziali che un territorio semi-montano impone.
Ecco da quando sono qua continuo a ripropormi una domanda: è l’essere umano che rigenera il territorio o è il territorio che spinge l’essere umano a rigenerarsi? Non siamo forse in un luogo dove l’interdipendenza tra la persona e il tutto che ha attorno fa sì che chi rigenera venga esso stesso in primis rigenerato (e qui si ritorna al concetto dell’abitare)? Dove è necessario abbandonare l’antropocentrismo che caratterizza gli insediamenti urbani e guardare la realtà dando spazio a una dimensione più egualitaria ed ecosistemica della contemporaneità?
Un altro concetto che richiama la mia attenzione è quello del tornare, in un insieme di dualismi che trovo in questo luogo molto forti: il prima e il dopo, il passato e il presente, il centro e il margine, l’individuale e il collettivo. Tutte immagini che risuonano in me potentemente mentre osservo l’orizzonte montano, volgendo le spalle alla città. È quindi “distruggendo le megalopoli senza pietà”, come sentenzia Bookchin in cima a questa pagina, che si potrà arrivare a “nuove comunità decentrate, ognuna inserita con cura nell’ecosistema di cui fa parte.”? E soprattutto, saranno queste comunità decentrate in grado di invertire la rotta di un sistema sempre più centralizzato e accartocciato su sé stesso, afflitto dagli ormai consolidati demoni dell’urbanizzazione massiccia, dell’industrializzazione e del capitalismo?
Probabilmente trovare nuovi centri e nuovi spazi è fondamentale per allargare un pò il campo e sedersi per un attimo a pensare alla strada da percorrere: da un lato vedo la totale polarizzazione tra i due ecosistemi, urbano e rurale, il dentro e fuori che si ripropone in forma oppositiva, quasi di negazione reciproca e impossibilità di scambio e relazione. Dall’altro un’interdipendenza a tratti servile nelle dinamiche instaurate, lungi dal metterne in discussione le fondamenta: la campagna che vende i suoi prodotti alla città, mentre quest’ultima ricambia con l’offerta di servizi, di lavoro, di “benessere”.
Sono davvero unicamente queste due le prospettive che abbiamo davanti?
Ne esiste forse una terza in realtà, ed è quella del tornare al passato, concretamente nelle pratiche e negli stili di vita, per re-indirizzare il futuro. Dell’esiliarsi al margine per ri-disegnare un nuovo centro. Del ricercare il cambiamento e la rigenerazione individuale per riportarla poi nel collettivo.
Dell’uscire dalla città per trovare forme di organizzazione alternative che ci consentano poi di rientrarci, anche se non fisicamente nell’abitare, ma nel prendere parte a quel dibattito collettivo (per davvero!) che sente ancora più l’urgenza di esprimersi in questa contemporaneità pandemica e frammentata. Perché, come ci insegnano i movimenti femministi: “Il personale è politico”.
Elementi questi ripresi anche da Barbera e De Rossi che, nell’omonimo libro, hanno coniato il termine metromontagna: “È il policentrismo metromontano del nostro paese, dimensione che richiede nuovi atlanti e nuove mappe che mostrino alla politica la possibilità di non governare con la montagna alle spalle e lo sguardo speranzoso alla sola pianura, come se la montagna non potesse generare ricchezza e benessere.” Per arrivare alla Scuola di Ecologia Politica in Montagna, che sulla sua pagina Facebook scrive: “Aprire la riflessione e il confronto nelle terre alte dell’Appennino bolognese, in una delle tante aree interne che caratterizzano l’Italia, è un modo per osservare il centro, il modello-città, i suoi cortocircuiti e i suoi fallimenti da una prospettiva alternativa.”.
In conclusione quindi, per riprendere Bookchin, forse prima di distruggere le megalopoli dobbiamo pensare a fare nascere e via via consolidare le comunità decentrate, tessendo tra queste reti che ne colleghino a doppio filo gli ecosistemi e predisponendo piazze che ne favoriscano l’incontro e il confronto e rendano possibile già oggi, nella condivisione delle pratiche di ogni giorno, il futuro che immaginiamo.
Letture consigliate per un approfondimento
“Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente” – Andrea Staid (Millieu, 2017)
“Metromontagna. Un progetto per riabilitare l’Italia” – Filippo Barbera, Antonio De Rossi (Donzelli, 2021)
“Bologna continua. Dall’Xm all’Appennino” – Paolo Spillaman Ferrandi (Calamaro Edizioni, 2021)