Assieme ad alcune compagne di La Foresta – Accademia di Comunità, bene comune emergente nella stazione di Rovereto (TN), abbiamo partecipato alla Biennale della Prossimità che si è tenuta a Napoli durante i primi giorni di ottobre.
L’evento, promosso da una cordata di organizzazioni nazionali, è frutto di un percorso partecipato dove un comitato locale co-progetta panel e laboratori aperti al pubblico, dove diverse esperienze di prossimità dialogano attorno a varie tematiche, tra le quali abitare collaborativo, economia sociale e rigenerazione urbana. Merita una menzione il quartier generale di questa edizione napoletana, il Real Albergo dei Poveri, una delle più grandi costruzioni settecentesche d’Europa.
Sin dalla prima lettura del programma, appare come l’organizzazione abbia scelto di puntare sulla quantità degli appuntamenti in agenda, alternando approfondimenti ben curati a confronti tenuti più in superficie, mantenendo comunque un profilo pressoché sobrio e rispettoso del filo rosso che ci univa: rispondere a bisogni condivisi, come si legge nella mostra “Glossario della Prossimità”, presentata all’evento.
Dopo un primo giorno particolarmente intenso, in un ping pong tra il centro Salesiani Don Bosco e Officine Gomitoli, con annessi acquazzoni imprevisti, il secondo giorno già avvertiamo un po’ di stanchezza dovuta a ore di discussione più o meno partecipata attorno a cerchi di sedie o sopra poltroncine rosse sin troppo comode. Per nostra fortuna, negli stessi giorni l’ex Asilo Filangieri ospita la residenza di una scuola francese di beni comuni. Ci siamo dunque aggregate a loro per un pomeriggio alla scoperta di due spazi: l’ex OPG “Je So’ Pazzo” e il Giardino Liberato.
Respirare un’aria più fresca rispetto alle sale della Biennale ci è servito per almeno due ragioni. In primo luogo, abbiamo avuto modo di ascoltare il racconto di due importanti esperienze di commons urbani a Napoli, con un linguaggio diretto e informale, andando dritti al punto: creare spazi di socialità per un benessere partecipato.
Abbiamo quindi avuto l’occasione di riflettere ancora una volta sul rapporto tra un’innovazione sociale più istituzionalizzata, dove ritornano spesso i concetti di volontariato e di lavoro sociale, e un’innovazione sociale generata dal basso, dove invece sentiamo più frequentemente parlare di attivismo o cittadinanza attiva. Al di là del vocabolario, si avverte comunque una sostanziale differenza tra un mondo associativo più formalizzato e le pratiche dei commons, la cui informalità non sta tanto nell’assenza di rapporti istituzionali, quanto più nel loro approccio all’azione sociale.
A distanza di settimane, riconosco che questi giorni napoletani hanno stimolato in me diverse riflessioni. Sia durante gli incontri della Biennale che nelle nostre esplorazioni alla ricerca dei beni comuni, ci è stato mostrato il significato che possono assumere dei progetti sociali ben sviluppati e calati nel contesto di riferimento, con un assaggio pratico durante una passeggiata guidata al Rione Sanità, che ha mischiato volontariato e attivismo, così come accade quotidianamente con sacro e profano. Durante le giornate della Biennale, tra le varie argomentazioni, ci si è focalizzati sul rischio di de-responsabilizzare le istituzioni, alla luce dell’impatto di alcuni progetti. All’interno di una comunità è opportuno riconoscere i propri bisogni per trasformarli in diritti da esigere, chiamando anche l’intervento pubblico per un benessere più partecipato.