Ridare alla cultura il ruolo che merita, per il bene nostro e delle nostre città

di Michele Tagliavini

Rigenerazione urbana, innovazione sociale e culturale, “città creative”, oltre a essere ottime parole chiave da giocarsi qua e là per fare colpo ad una cena, sono tutti temi che mi appassionano molto, tanto da farli diventare parte della mia vita quotidiana da ricercatore. In particolare, trovo molto interessante il legame fra innovazione sociale e cultura. Credo che messe insieme possano portare alla creazione di vero valore per un territorio, attraverso l’arte, la creatività, grazie anche al ruolo delle imprese, delle associazioni e delle diverse realtà che vi abitano.

Ma qual è il filo conduttore che unisce tutti questi elementi?

Una domanda che da ormai un anno non mi da tregua, ma alla quale un pezzo per volta sto provando a dare una risposta, o quanto meno una mia versione. Ho iniziato a chiedermelo lo scorso febbraio, quando mi sono ritrovato nella campagna di Bruxelles – perché siamo bottom-up, non dimentichiamolo mai – in mezzo ad un’incredibile community di 44 artisti, attivisti e lavoratori culturali under 30 di tutta Europa, raccolti per l’occasione da Culture Action Europe per l’iniziativa Pop the Vote! in vista delle scorse elezioni europee. Un incontro che aveva l’obiettivo di trovare soluzioni comuni per dare al settore della cultura il posticino che merita nella famigerata nuova agenda politica della Commissione Europea.

Lì ho capito l’importanza della cultura nelle dinamiche rigenerative, ma mi mancavano ancora dei pezzi del puzzle, perciò una volta lasciata Bruxelles ho approfondito la questione.

44 “Changemakers” selezionati da Culture Action Europe

Ho fatto un salto indietro di circa 40 anni per capire la relazione tra innovazione sociale e settore culturale. Ho scoperto che questi due concetti nascono da un’origine geografica comune: la Gran Bretagna. Non dai governi o dalle università, ma dai think-tank laburisti, da cui emerge un’idea di capitalismo più sociale, di quell’economia civile che Antonio Genovesi aveva teorizzato nel Settecento.

Sempre in Gran Bretagna, 25 anni fa, il governo decide di racchiudere l’arte e la cultura sotto la categoria di “industrie creative”, valorizzandone il contributo economico, ovviamente con l’idea di fare della Gran Bretagna un punto di riferimento nel mondo. Se da un lato questa mossa ha riconosciuto il valore dell’arte e della cultura, dall’altro ha contribuito in qualche modo al declino del settore.

Culture is not an Industry, Justin O’Connor, Manchester United Press, 2024

La cultura si trova ora senza visione e finanziamenti, completamente privata del suo spessore politico e del suo ruolo, declassata ad una mera industria – come racconta Justin O’Connor nel suo libro “Culture is not an Industry”. Ma un elemento fondamentale della democrazia e dei diritti umani non può essere ridotto a semplice industria. È necessario ricostruire il senso della cultura, per un futuro più giusto ed equo, per la democrazia stessa.

Quello che vediamo negli ultimi anni è purtroppo una corrente diversa, in cui la democrazia viene seriamente minata in tutto il mondo, arrivando al punto in cui il numero di regimi autoritari ha superato quello delle democrazie assolute, con 59 regimi autoritari su 167 Paesi analizzati (Democracy Index 2023, Economist Intelligence Unit). Un dato allarmante, che mette in discussione la libertà delle persone, la libertà di muoversi, la libertà di vivere, la libertà di esprimersi. Come esprimersi se non attraverso la cultura e la creatività?

Mappa dei regimi nel mondo, Democracy Index 2023, Economist Intelligence Unit

Sono convinto che l’arte e la cultura svolgano un ruolo fondamentale per le persone e la società, per far luce sulle ingiustizie, le disuguaglianze, intrattenendo allo stesso tempo le persone e creando bellezza. Perché è di questo che si tratta: dare forma al bello in risposta al brutto che viviamo.

Molte altre persone devono pensarla allo stesso modo, almeno in Europa, visto che ci sono circa 2 milioni di imprese che operano nel settore culturale e creativo (Eurostat, 2021). La prova che si può fare a tutti gli effetti rigenerazione facendo anche impresa.

Lo possono fare anche le organizzazioni no-profit, spesso sottovalutate, ma che in realtà sono un motore di sviluppo locale a tutti gli effetti. Basti pensare che nel 2022 le imprese culturali no-profit statunitensi hanno registrato un’attività economica di 151,7 miliardi di dollari, contribuendo a generare 2,6 milioni di posti di lavoro, per un valore complessivo di 100 milioni di dollari distribuiti sul territorio (Forbes, 2023). Una prova più che concreta di come no-profit non significhi necessariamente assenza di crescita o di sviluppo, ma al contrario promozione di valore nel modo più sostenibile possibile, sotto tutti i punti di vista.

Yayoi Kusama’s installation You, Me and the Balloons in Manchester, The Guardian

Questa è l’idea che mi sono fatto alla luce delle esperienze vissute e dei dati a portata di mano. I territori hanno bisogno di essere rigenerati, la natura ha bisogno di maggiore ascolto, le persone hanno bisogno di solidarietà, inclusione e integrazione. In questo, la cultura e l’arte giocano un ruolo chiave, accompagnando il cambiamento delle città e dei cittadini. 

Nel mio piccolo proverò a farlo anche io, perché proprio da queste riflessioni è nata Formiche Grassroots Network aps (Formiche per gli amici), un’associazione no-profit per la promozione sociale e culturale, lanciata insieme ad altri sei soci che condividono la voglia di portare piccoli semi – o briciole in questo caso – di cambiamento nelle nostre città. Se anche voi avete delle vostre battaglie fatecelo sapere, più siamo meglio è!