Quello che le strade non dicono 

di Giorgia Gamba

Resistere al rimosso coloniale urbano

Statue avvolte da corde e trascinate giù dai loro piedistalli, gettate nei fiumi,

statue decapitate, poi rimosse, 

statue verniciate di rosso sangue, 

rese visibili e diventate protagoniste del dibattito pubblico.


Dopo l’omicidio di George Floyd e le conseguenti proteste organizzate dal movimento antirazzista Black Lives Matter per chiedere di decolonizzare le città, la frequenza degli eventi di messa in discussione critica dei simboli di un passato razzista, schiavista e coloniale che si sono susseguiti e diffusi, dagli Stati Uniti in Europa, ha dimostrato che lo spazio pubblico non è neutro.

Non è neutro e non lo sono neppure gli elementi dell’arredo urbano che lo compongono, dai monumenti agli odonimi, vale a dire i nomi di vie e piazze. Essi costituiscono meccanismi pubblici identitari che fungono da rassicurante orientamento tanto spaziale quanto culturale: tramandano i valori e conservano la visione del mondo ereditata da chi in passato deteneva il potere di decidere che cosa far ricordare e che cosa far dimenticare.

Anche in Italia, la contestazione dei simboli e dei valori del passato è stata alimentata dalla pervasiva presenza di elementi dell’arredo urbano che incarnano la memoria dei vincitori e la storia dell’occidente vittorioso che ha esportato progresso, civiltà, modernità.

Facciamo aperitivo in via Libia, prenotiamo una stanza all’hotel Adua, andiamo a prendere il pane in via Amba Aradam, il giornale in via Lago Ascianghi,  il caffè in via Toselli, di fretta e di corsa avvolt* e assort* in un flusso di pensieri che non include il perché le nostre strade ricordino e celebrino teatri di guerra e di violenze sistematiche, dagli stupri alle deportazioni, vittorie conseguite mediante l’impiego massiccio di armi chimiche proibite dalle convenzioni internazionali e protagonisti dell’espansionismo coloniale italiano celebrati nel romanzo urbano come eroi nazionali.

Lo spazio pubblico italiano non solo non è neutro, e non lo è mai stato, ma è pure oggetto di un paradosso: ad un pieno di elementi dell’arredo urbano che ricordano la storia coloniale nazionale corrisponde un vuoto di memoria, una rimozione, associata alle modalità brutali con le quali quell’espansionismo è stato, pur tardivamente, realizzato da governi liberali e fascisti attraverso la costruzione di rapporti ineguali basati su status, razza e genere.

Lastra raffigurante la mappa dell’Impero coloniale italiano in Piazza delle Erbe a Padova – foto di Giorgia Gamba

Come fare quindi? Come comportarsi con quei monumenti e quegli odonimi ereditati dal passato che raccontano i crimini e le atrocità commesse durante il colonialismo? In capo alla collettività vige forse il dovere di conservare quest’eredità urbana o la responsabilità di rimuoverla dallo spazio pubblico per ciò che essa rappresenta?

A partire da questi due interrogativi si snoda “Ciò che resta della coscienza coloniale italiana: memoria urbana e resistenze cittadine” primo volume della collana editoriale “Quaderni del Casrec” (Centro per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea dell’Università di Padova) recentemente pubblicato da Padova University Press.

Nel saggio cerco di ricostruire come, in tempi recenti, le eredità urbane del colonialismo italiano siano diventate spazi contesi e contestati presentandosi al contempo come campo di guerre di memorie plurali e contrapposte e un’occasione per riflettere come interagire con ciascuna traccia. Dalla statua di Indro Montanelli a Milano ai quartieri e rioni di Roma, Bologna e Padova delimitati da vie di matrice coloniale, si esplorano alcune delle principali pratiche di riappropriazione e risignificazione delle tracce urbane coloniali da parte di collettivi e movimenti dal basso. 

Venticinque Aprile 2024 nel Rione Palestro a Padova – foto di Giorgia Gamba

Il più delle volte, l’urgenza di agire nello spazio pubblico per rendere conto dei cambiamenti sociali in atto si manifesta con il resistere e sfidare la narrativa autoassolutoria e mainstream degli “italiani brava gente” che per lungo tempo ha ostacolato la possibilità di fare i conti con il passato coloniale nazionale. Attraverso pratiche plurali e culturali di varia natura tra cui la guerriglia odonomastica e le passeggiate decoloniali, individualmente o in gruppo, si  può intervenire sulla città e sulle sue tracce coloniali fornendone una contestualizzazione critica. 

Talvolta la discussione su come interagire con i lasciti del passato coloniale bussa alle porte delle istituzioni locali che, con i loro tempi e modi, reagiscono con politiche della memoria impegnate a non dedicare ulteriori strade a personalità coloniali o a dedicare nuove strade a soggetti che hanno combattuto contro il colonialismo italiano.

Il filo diretto tra ingiustizie del passato e del presente viene reso evidente dalla sensibilità di guardare ciò che resta del colonialismo nello spazio pubblico attraverso una prospettiva decoloniale e intersezionale. Cruciale risulta pertanto sia la riscoperta di storie e memorie dimenticate sia la riappropriazione di spazi e discorsi che offrono visibilità a corpi e soggettività storicamente marginalizzate per ragioni sovrapposte legate a estrazione sociale e culturale, genere, età e professione, quindi persone escluse, percepite come minaccia, sottorappresentate o non rappresentate affatto. Dopotutto, la giustizia sociale passa anche attraverso la giustizia spaziale.