di Veronica Magli
“L’obiettivo è quello di ricostruire il legame sociale, combattere i pregiudizi e modificare le norme della comunità che stanno all’origine e alimentano il perpetuarsi della povertà e delle disuguaglianze”.
(dal Bilancio Sociale 2020 della Cooperativa Piazza Grande)
V: Di cosa si occupa Piazza Grande e che forma giuridica ha?
T: Piazza Grande esiste a Bologna da quasi trent’anni in forma di associazione e da venticinque come cooperativa. Prima ancora dell’associazione, Piazza Grande è conosciuta qua in città per la scrittura, redazione e diffusione del primo giornale di strada italiano, ad opera di persone senza dimora, che iniziavano così percorsi di recupero.
V: Che tipologia di servizi offrite oggi?
T: Oggi abbiamo vari percorsi occupazionali attivi per persone in condizioni di marginalità sociale. Un percorso di Housing First per adulti che, assieme al progetto “Tutti a casa”, rivolto a famiglie, prevede l’inserimento di chi è in emergenza abitativa all’interno di appartamenti reperiti e gestiti dalla cooperativa, con contratti di locazione a canone concordato. Due progetti di Housing Led (letteralmente “abitare guidato/accompagnato”, n.d.r.), il “Centro di Accoglienza Rostom”, aperto h24, per persone con bisogni di indifferibilità ed urgenza, e il progetto “Aria”, di seconda accoglienza per richiedenti asilo. Poi abbiamo anche alcuni servizi rivolti alle persone senza dimora che dormono in strada e il Mercato di Piazza Grande, che recupera dagli elettrodomestici ai vestiti, dai libri ai divani (e tanto altro ancora) e permette contestualmente l’inserimento lavorativo di persone in difficoltà.
V: Parliamo di Housing Sociale. Che definizione ne dareste, anche in base al lavoro che svolge la cooperativa Piazza Grande?
T: Noi dal 2005 sviluppiamo progetti abitativi ispirandoci al modello dell’Housing First, di matrice statunitense (letteralmente “prima la casa”, n.d.r.). Nell’Housing First viene data la priorità all’accesso alla casa, per restituire dignità alle persone senza dimora e, soltanto successivamente, si iniziano percorsi educativi e di reinserimento sociale. Altro aspetto è proprio quello dell’accompagnamento: nell’Housing Sociale il concetto non è “oggi ti do la casa e domani ci vediamo per l’affitto”, ma piuttosto “oggi ti do la casa e da domani ti accompagno in varie relazioni che sono alla base della creazione di comunità”. La casa è lo strumento, non il fine.
I: La cosa più interessante legata all’approccio dell’Housing First è il non considerarlo soltanto come una risposta al bisogno abitativo del singolo individuo, ma legarlo a un discorso più ampio, che riguarda la comunità intera. Nelle case dei progetti Housing First ad oggi convivono sì persone che vengono da progetti di emarginazione, ma che nell’entrare in case “normali”, e quindi non in strutture dedicate soltanto ai senza dimora, recuperano la loro identità più complessa di cittadini/e. È importante per le persone senza dimora riappropriarsi in primis della propria identità e togliersi (dall’interno soprattutto, nei confronti di sé stessi) un’etichetta che genera uno stigma sociale. Certo, di fondo si vuole rispondere principalmente a un bisogno abitativo, ma è ugualmente importante preparare prima il terreno alla creazione di un senso di comunità che è difficile da coltivare, soprattutto nelle città.
V: Nei vostri progetti, che istanze riesce a coniugare e a soddisfare, l’Housing Sociale?
T: L’Housing Sociale per noi significa lavorare sul disagio, ovvero a beneficio di persone senza dimora, ma anche sull’agio, quindi su quelle persone che scelgono consapevolmente di abitare con questa modalità. Certo, il bisogno alla base è lo stesso, e riguarda l’accesso alla casa che, in città come Bologna (seconda soltanto a Milano e Roma per costo delle abitazioni a mq) è molto presente. Il problema di accessibilità alla casa si verifica però anche, e forse ancora di più, nei “paesi-satellite” che appartengono alla città metropolitana, quelli della prima cintura suburbana di Bologna, come Calderara di Reno. Qui il mercato dell’affitto non esiste proprio per alcuni soggetti, nel senso che non si trovano case in affitto sui siti di annunci immobiliari normalmente consultati anche da studenti, immigrati, ecc.; i proprietari si affidano unicamente alle agenzie immobiliari che filtrano le domande riservandole a soggetti con profili di reddito medio-alti.
V: Quali sono, secondo voi, le partnership le partnership da attivare per un intervento di Housing Sociale efficace?
I: Si deve puntare sul welfare integrato di comunità, il welfare pubblico-assistenziale, da solo, non basta più. Bisogna fare lavorare assieme: Terzo Settore, Università, aziende (sempre più oggi con l’ausilio anche della finanza ad impatto) e, in primis, la comunità composta da cittadini e cittadine. In un intervento di Housing Sociale efficace la soluzione ai differenti bisogni dell’abitare va co-creata assieme alla comunità di riferimento; è necessario partire in primis da una ricerca e definizione collettiva dei bisogni, per poi arrivare a una soluzione che tenga conto delle differenti istanze, che hanno tutte uguale diritto di esistere.
V: Parliamo ora più nello specifico del progetto di Housing Sociale che Piazza Grande sta sviluppando a Calderara di Reno. Come si articola nel dettaglio?
T: Il progetto coinvolge una ventina di appartamenti di proprietà comunale. La progettazione in oggetto dura all’incirca da due anni e a settembre di quest’anno uscirà il bando che prevedrà l’assegnazione degli appartamenti (dei quali alcuni sono già abitati attualmente) agli inquilini entro fine anno. il progetto, basandosi su spazi già di proprietà del Comune di Calderara, si auto-sostiene con le quote di affitto degli inquilini, che in questo caso sono di più del 50% inferiori agli affitti equivalenti a Bologna. Il modello che stiamo sviluppando, oltre a seguire l’approccio dell’Housing First di cui abbiamo parlato, vuole replicare gli interventi di Housing Sociale esistenti a Milano, Torino, Barcellona, Parigi e ci piacerebbe che in futuro divenisse una best practice: l’obiettivo non è riempire un palazzo di persone senza dimora, bensì, attraverso l’abitare, concorrere a creare una comunità e un insieme di relazioni.
V: Che criteri userete per assegnare gli appartamenti?
T: Il bando mirerà alla composizione di un “mix-sociale” composto prevalentemente da persone con una forte motivazione all’abitare assieme, quindi da quelle che noi chiamiamo le “famiglie consapevoli”, che credono fortemente nei valori dell’Housing Sociale, e da altre famiglie, a rischio marginalità; poi ci saranno studenti, lavoratori e persone anziane in condizioni di autonomia, a rischio o meno di marginalità. E infine anche persone singole e una piccola percentuale di persone senza dimora. Abbiamo intenzione di fare una selezione in più round, così da “correggere il tiro” in caso di squilibri.
V: Come verrà sviluppato il senso di comunità, nella pratica?
T: Non essendo questo di Calderara un co-housing, si compone prevalentemente di spazi individuali a disposizione dei singoli nuclei di inquilini e di pochissimi spazi comuni, prevalentemente esterni alla struttura. Lo sviluppo delle relazioni è quindi in questo caso più complicato, perché si deve basare principalmente sull’organizzazione di attività condivise tra gli abitanti, ma non sul supporto di spazi comuni. A noi, come cooperativa, interessa mantenere il fil rouge della progettazione per un tempo congruo e funzionale al suo divenire “comunità intenzionale”, che dovrebbe essere l’obiettivo principale di ogni progetto di Housing Sociale, per poi, in un futuro, sperare che possa proseguire autonomamente nel suo percorso.
V: Come leghereste l’Housing Sociale alla rigenerazione urbana?
T: Nella rigenerazione urbana, come nell’Housing Sociale, è importante partire dal concetto del “fare comunità” che, in ambiente urbano, significa ricostruire nelle persone il senso di città. In entrambi i casi si rigenera la comunità prima dello spazio, o dell’edificio e, in entrambi i casi, la casa o l’edificio sono interdipendenti dalla comunità. Nell’Housing Sociale poi entra in gioco anche il concetto di accessibilità alla casa che, come detto fino ad ora, ha una rilevanza a sé.
V: Sarebbe possibile immaginare un intervento di Housing Sociale nelle aree interne?
T: Per le persone senza dimora, anche una volta che viene assegnata loro un’abitazione, è importante rimanere vicino ai “giri” e alle relazioni che avevano sviluppato fino a quel momento nella città, quindi vedrei difficile un loro ri-collocamento al di fuori dell’ambiente urbano. Per quanto riguarda lo sviluppo del senso di comunità invece, da mio punto di vista questo sarebbe anche facilitato, perché il senso di solitudine percepito in molte dimensioni delle aree interne, uscendo fuori dalla retorica del “paesino”, troverebbe maggiore soddisfacimento nella condivisione di spazi e mezzi.