Il nome della città – pratiche etnografiche tra inclusività toponomastica e walkability

di Collettivo Rigeneri – Alba Nabulsi, Vanda Benolich, Damiano Zatti, Federica Manna, g.olmo stuppia

Il nome della città – pratiche etnografiche tra inclusività toponomastica e walkability

L’Europa è indifendibile.
L’Europa è spiritualmente, moralmente indifendibile.
E oggi, si dà il caso che l’atto di accusa
sia professato sul piano mondiale da decine e decine
di uomini che, dal fondo della schiavitù, si ergono a giudici.

Aimé César, Discorso sul colonialismo

Insistono, nel rione Palestro della città di Padova, diverse frontiere toponomastiche che fanno eco a quel passato coloniale che all’Italia poco piace ricordare. Il tentativo della nostra associazione, Rigeneri, vuole essere quello di camminare domandando ragione di quelle vite spezzate, secondo i principi di un’osservazione etnografica ed intersezionale.

Dal nostro punto di osservazione appaiono molto interessanti tutte le pratiche che, agite nello spazio pubblico, producono trasformazione spaziali e relazionali – come a costituire il risultato di una rete di relazioni incarnate.Le vie su cui si è dibattuto sono  sono, per citarne alcune: Via Amba Alagi, via Tembien, via Adua, via Agordat, piazza Toselli, celebrata anche con il nome di piazza Caduti della Resistenza, via Amba Aradam. 

La nostra riflessione odonomastica – la toponomastica delle strade (dal greco odós, via) – propone una riflessione sugli odonimi in quanto meccanismi pubblici identitari, dove i nomi delle vie orientano culturalmente in modo diffuso e inconscio il passante, proprio attraverso la loro subliminale e pervasiva forza simbolica. Eppure il passato, si sa, ha il pregio di essere reinterpretato, e così anche la giustezza o inadeguatezza degli odonimi che lo celebrano, quasi ad ergersi come l’eloquente voce dell’avvicendarsi di gruppi di potere, di cambi di passo istituzionali o ancora dello sviluppo di una nuova sensibilità collettiva.

Camminare, quindi: è il camminare a funzionare per noi come pratica e metodologia postcoloniale, ci permette di prendere il tempo di osservare, ascoltare, leggere. Ci chiediamo allora: quale strumento tecnico-pratico ci permette di rilevare il grado di attraversabilità di un quartiere a prescindere dal corpo che abitiamo? Quale strumento è utile alla costruzione e alla comprensione della città postcoloniale? 

La nostra risposta è stata: la walkability. La walkability altro non è che uno  strumento urbanistico che permette di calcolare la capacità di un ambiente urbano di incentivare i residenti a camminare. Un alto livello di pedonalità crea una serie di effetti domino virtuosi: dall’aumento dello stato di salute fisico e mentale dei residenti, all’incentivazione dell’economia locale, fino a giungere alla creazione di una società non dipendente dalle automobili. La nostra osservazione del Rione Palestro ci ha permesso di definirlo un quartiere con un buon livello di walkability: si potrebbe vivere una giornata intera senza uscire dal suo perimetro, da pedoni, sbrigando le faccende quotidiane o passeggiando nel giardino d’inverno celato tra le case popolari. Su iniziativa degli abitanti del quartiere, è in corso un processo di reintitolazione delle strade del quartiere e di comprensione storica dei nomi vigenti.

(cc) Alba Nabulsi

Il nostro non è che un tentativo tra molti di comprensione del quartiere, che fa eco a chi tra la società civile, tra i residenti afrodiscendenti e le  associazioni da tempo opera per visibilizzare le vite cancellate da quei pannelli.
In questa prosa urbana si traduce così la nostra dérive in Rione Palestro, nelle parole del nostro compagno di viaggio, artista e ricercatore g. olmo stuppia, che culla i nostri passi mentre noi continuiamo a camminare:

Da via Amba Radam, fino a Via Bengasi una distesa infinita di amore perfonde il vuoto esistenziale del mondo del lavoro. 

Volevo tracciare l’aria e l’anima passeggiando qua e là.

Mi ordisce agli orecchi: ci passo tanto tempo anche oggi, diversi amici vivono li, che ci hanno raccontato il quartiere. Gli sguardi. La curiosità, il timore.

Io (V.) ero in affitto in una delle prime case in Via Palestro. Avevo poi bisogno di un contratto e la proprietaria non me lo faceva.

Le utopie morirono. E me ne andai. 

Palestro (Pilastro)

Pausa. 

Oso ripetermi, laconico. Qui è la Padova minore. Quella voluta da generali, quella desiderata dall’ATER, quella disegnata per i “vinti”.

Per noi che siamo migranti di lusso, con l’ansia permanente dell’inadeguato, di una identità dispersa, troveremo qui forse pace?

Respiro. Padova centro, via Dante, bella vista, l’odore di  una canna. Uno spazio lacerato. Un lacerto immenso d’anima e cuore. Una voglia infinita e d’amore.

 

La città del futuro, pensiamo, sarà intersezionale o non sarà. Sarà post-coloniale o non sarà.  Ovvero terrà conto di tutte le forme di esclusione, dei rapporti di potere, siano essi simbolici, materiali o rappresentativi, senza cristallizzare gli errori della Storia ergendoli a monumenti, incidendone il nome nel cemento che calpestiamo ogni giorno.

(cc) Alba Nabulsi