Esploratrici di boschi e raccoglitori di tracce. Racconto di una giornata ai Prati di Caprara con il collettivo Hardchitepture
di Marta Padovani
Con una mail, mi iscrivo al laboratorio dal titolo Trace Eaters, che si propone come un’azione di cura per il bosco urbano dei Prati di Caprara Est. Il collettivo di scultori propone una giornata di raccolta rifiuti per ripulire la zona dagli scarti abbandonati e al contempo selezionare il materiale da utilizzare per l’allestimento temporaneo di un’installazione ambientale (www.exitfestival.it).
L’appuntamento per il workshop “Trace Eaters” è sul marciapiede della trafficata via Saffi, davanti a una rete da cantiere tagliata, dove mi accoglie una curatrice del festival, porgendomi un pacco di guanti di lattice e una mappa dei sentieri del bosco urbano. Ci infiliamo nel buco della rete, mi fa strada tra frasche, rovi e immondizia per raggiungere il resto del gruppo e mi dice:” Sappi che con questo, stiamo facendo anche un atto di disobbedienza civile”.
Durante la prima parte della giornata esploriamo il bosco e raccogliamo solo una piccola e insignificante parte della massa di rifiuti che ci circonda.
Camminiamo insieme, spingiamo carrelli trovati tra gli alberi e li riempiamo di rifiuti, selezionati per l’installazione secondo il nostro gusto, o per la volontà di rimuoverli dal bosco. Aiutandoci l’un l’altra nello spingere i carrelli lungo i sentieri, ci raccontiamo chi siamo e come siamo capitati in quella situazione surreale: un gruppo di curiosi, artiste, ricercatori, studentesse, galleriste, attiviste e molto altro.
Presto ci rendiamo conto di essere in un luogo abitato, per questo ci tratteniamo dal ripulirlo di oggetti che potrebbero appartenere a qualcuno. Attraversiamo in silenzio alcuni accampamenti, timorosi di incontrarne gli abitanti, non avendo la certezza di essere ospiti graditi.
Stanchi, sudati e ricoperti di zanzare raggiungiamo lo spot scelto dagli artisti per l’installazione, nella zona di margine tra la fine del bosco e la tangenziale, sotto una struttura in ferro, scheletro di un’ex caserma militare. Gli artisti ci spiegano molto brevemente il loro modo di lavorare, facendo emergere la loro simbologia, che si può intuire anche semplicemente dal loro nome: Hardchitepture.
Durante il lavoro di gruppo del pomeriggio il ruolo degli artisti-facilitatori e quello dei partecipanti è praticamente identico, tranne per il fatto che i primi ci suggeriscono il loro stile: struttura rigida e drappeggi morbidi per richiamare un’architettura. Ci suggeriscono anche di non prendercela se qualcuno dovesse spostare elementi da noi disposti in un certo modo, modificando la nostra composizione.
Iniziamo a selezionare e dividere il materiale in due categorie: strutture e drappeggi, riempiendo così tutto il grande piazzale. Poi cominciamo ad assemblare il materiale, tutti insieme, ognuno secondo il proprio senso estetico, e piano piano ci rendiamo conto che la nostra grande installazione collettiva simboleggia una casa, ma sembra un accampamento nel deserto in un’oasi strabordante di residui della città.
A un certo punto ne decretiamo la conclusione, non si sa se l’ha deciso qualcuno o se tutti insieme ci siamo resi conto che non c’è altro da aggiungere, siamo soddisfatti.
Saluto e parto per riattraversare il bosco, ormai ho imparato la strada, posso tornare da sola verso l’uscita, che dista circa mezz’ora di cammino. Penso di essere quasi arrivata, quando incontro un signore anziano e curvo che si gira verso di me, io mi spavento e lui mi dice: “Salve, anche lei viene qua a funghi?”
Sorrido e immagino un’installazione artistica partecipata in cui vengano coinvolti gli invisibili abitanti dei boschi urbani, che costruiscono capanne e villaggi segreti nel pieno centro della città.