Bagni Pubblici di Via Agliè. Un modello di Casa di Quartiere

a cura di Margherita Chinaglia, Enrica Perotti e Martina Pestarino

Ci troviamo in Via Agliè, nel quartiere Barriera di Milano, a Torino. Un edificio in mattoni rossi mi aspetta alla fine della via. La porta è aperta, entro, alzo lo sguardo e leggo “Benvenuti nella casa di quartiere“.

È qui che Erika Mattarella, insieme a Martina ed Akima, gestisce il progetto, mi aspetta per la nostra intervista, dove cercherò di capire come funziona la realtà di una casa di quartiere.

La saluto da lontano, è impegnata in una chiamata, e subito intuisco la vita frenetica di chi coordina un luogo come questo. Nato nel 1956 come bagni pubblici, viene chiuso nel 1990, per riaprire nel 2005 per poi veder nascere, nel 2008, il centro culturale.

A partire dagli anni ’50 le docce pubbliche hanno occupato un ruolo importante nello sviluppo del quartiere e nel servizio destinato ai tanti abitanti e operai delle “case di ringhiera”1.

Oggi si è sviluppato un centro socio culturale che costruisce con il coinvolgimento dei cittadini del quartiere – vecchi e nuovi abitanti di Barriera – legami a livello interpersonale in una zona ricca di diversità, rappresentativa delle realtà urbane contemporanee.

Le attività che ospitano nei loro spazi sono tantissime: dal bistrot, ai corsi di teatro, dal canto alla danza, alla fotografia, alle mostre, passando per lo sportello sociale.

Martina, con un background in scienze della comunicazione, lavora da circa tre anni in questa realtà, gestisce il bar bistrò che è anche punto informativo e di orientamento e svolge diversi ruoli di segreteria organizzativa.

Akima coordina tutto quello che nella Casa riguarda la sfera sociale, mentre Erika, anche se non ama definirsi così, è la direttrice, svolgendo il ruolo di collante e supervisor del trio.

Chiedo loro di parlarmi del progetto ed Erika racconta:

“Il progetto è iniziato come servizio di docce pubbliche, senza nessun personale di supporto alla comunità e allo sviluppo territoriale. Dopodiché, è stata avviata una riflessione all’interno della cooperativa su come veniva percepito il luogo e attraverso una serie di interviste con gli abitanti del quartiere abbiamo capito come tutti vivessero il luogo innanzitutto attraverso la memoria storica e il ricordo: tutti gli abitanti del quartiere sono passati per i Bagni Pubblici, perché quasi tutti gli abitanti sono passati per le case di ringhiera!” sottolinea Erika.

Partecipano quindi al bando della Fondazione Compagnia di San Paolo “Immigrati nuovi cittadini” raccontando i disagi di un luogo che era culturalmente tagliato fuori dal centro città, dove gli abitanti per prendere in prestito un libro o per andare ad una mostra dovevano fare parecchi kilometri. Raccontando di avere un intero piano completamente dismesso ed inutilizzato, che poteva essere reso agibile come luogo di ritrovo e cittadinanza. Raccontando, inoltre, le due problematiche che vogliono affrontare: la prima, la forte ondata migratoria che veniva accolta senza un dialogo aperto a riguardo, come una sorta di piaga nascosta. La seconda, le politiche migratorie fatte sempre senza il coinvolgimento diretto dei migranti stessi.”

Passo alla domanda successiva. Qual è la sfida principale che vi trovate ad affrontare?

“La sfida più difficile rimane il fatto che questo posto avrebbe bisogno di un’energia nucleare per poter volare. Perchè la mole di persone con idee, problemi, bisogni, potenzialità è infinita e alla fine si è consapevoli che il capacity di questo posto è potenzialmente infinito ma pragmaticamente limitato.

Per quanto si possa cercare di migliorare il sistema organizzativo, tutto quello che è la casualità, l’inaspettato, è difficile da gestire, non si è pronti. Ho lavorato qua da sola per 10 anni, e quando Martina ed Akima sono state assunte ci è sembrato di poter volare. Ma adesso di nuovo non è abbastanza, e probabilmente ci fossero persone in più sarebbe ancora la stessa cosa.

È possibile o addirittura giusto cercare una soluzione? Mi viene spontaneo chiedere

“Forse no- risponde Erika– perchè è davvero un luogo fatto da una quotidianità casuale che non deve essere per forza incasellata. Alla fine, ti costruisci delle quotidianità frenetiche accompagnate però da tutto quello che l’esperienza degli anni ti porta: attenzione, programmazione, vision e mission.

Perché se sei una casa del quartiere la tua mission resta invariata ma la vision cambia ogni tre anni, perché cambia il territorio. Il quartiere cambia e tu ti rimetti in gioco, cerchi di capire quali sono i nuovi bisogni, i nuovi attori.

Le cose cambiano sempre, l’importante è che nella misura del cambiamento, in un modo o nell’altro, tu sia pronta ad essere dinamica, a comprendere che tutto quello che succede, anche se in uno modo o nell’altro non si radica, ha portato ad un cambiamento, è stato miglioramento delle condizioni delle persone, è stata un’esperienza forte per il quartiere.”

Emerge così tutta la potenza ma anche la criticità di un progetto che entra in un loop generativo che potrebbe andare avanti all’infinito, tanto bello quanto dispendioso in termini di energie e risorse.

Viene spontaneo chiedersi come sia sostenibile economicamente una casa di quartiere.

“Non è un posto che può raccontare un modello economico sostenibile-ammette Erika- detto questo è un progetto che riesce a stare in piedi perchè la mole di lavoro volontario è grandissima, c’è una fortissima reciprocità, per cui le persone che vengono qui ci aiutano anche a fare altro, ognuno fa un pezzo.”

Qual è l’impatto del progetto?

La cooperativa si avvale della valutazione di impatto per comprendere a pieno gli impatti positivi ma anche le falle, mi spiegano.

“Un fatto come il supporto all’economia di quartiere è un impatto di cui non ti rendi conto finché non lo vedi tradotto in numeri a fine anno. Quando capisci che ⅓ del tuo ricavato viene reinvestito nei commercianti del quartiere ti rendi conto di come una scelta etica dia un risultato enorme” mi dice Martina.

Le falle? troppe ore di volontariato per essere un’impresa sociale.

“Un impatto che posso dirti io difendo con le unghie e con i denti- conclude- è il fatto che la gente del quartiere sa che questo posto esiste, e che in un modo o enl il giorno che hanno un’idea un bisogno etc possono varcare la porta e chiedere.”

Finiamo a parlare di collaborazione, chiedo quindi di dirmi di più sulla rete delle case di quartiere di Torino

La rete è nata 6 anni fa, nel 2012, su stimolo dell’amministrazione con cui si è sempre avuto un ottimo rapporto.

Grazie alla vittoria del bando che fare, la rete prende una forma giuridica concreta, viene individuato un soggetto esterno che li accompagna in un percorso di un anno, che ha porta alla scrittura di un manifesto della rete delle case, un documento coinvolgente e valoriale.

“Siamo così andati dal notaio a costituire la rete, come associazione di secondo livello. La mission della rete delle case era ambivalente: da una parte aiutare le case a costruire progetti comuni e aiutarsi a vicenda ad attirare risorse; dall’altra promuovere il modello di casa di quartiere, come nel caso di Genova. L’esperienza della rete la continuo a difendere come un’esperienza eccezionale che aiuta ad essere tutti più forti, a mettere in un unico bagaglio tutte le ricchezze, in uno scambio intenso di pratiche, anche le più quotidiane. Si fanno progetti insieme e si ha anche un altro peso nel dialogo con le istituzioni. Sono due anni che facciamo questo corso che si chiama “Metti su casa” e c’è gente da tutta Italia che vi partecipa.

È importante poi ricordare come la casa di quartiere sia un pongo. Non ti puoi immaginare di replicarla in un altro quartiere di Torino o in un’altra città, perchè faresti un fallimento. Ma i nostri sono degli stimoli, dei suggerimenti, degli approcci, modelli che non vai a replicare ma vai a fare riferimento e sperimentare rispetto al territorio a cui fai riferimento. È il quartiere che ne traccia l’identità.”

Note

(1) «Le case di ringhiera sono tipiche abitazioni popolari di Milano e Torino: edifici da due a cinque piani suddivisi in piccoli appartamenti di uno o due locali, raggruppati intorno a un cortile comune, servizi e scale anch’essi in comune. Dietro questo modello abitativo ci sono motivi economici, perché consente di ospitare il massimo numero di famiglie nel minor spazio possibile. Le case di ringhiera incoraggiano le attività collettive ma precludono la privacy. Chi entra e chi esce è sotto gli occhi di tutti. Non c’è litigio che non sia di pubblico dominio. Ogni viaggio al gabinetto diventa un evento pubblico. I panni sporchi – veri e figurati – si lavano collettivamente» (John Foot, Milano dopo il miracolo, 2015).