di Federico Bonelli, direttore Trasformatorio Foundation, Amsterdam
Arte + Resilienza + Innovazione = Rigenerazione
A Cosio d’Arroscia, 730 metri sul livello del mare in una valle laterale delle alpi liguri, prima a Maggio poi di nuovo a settembre, guido un gruppo d’artisti nell’esplorazione produttiva e emozionale di un paese spopolato e magnifico.
È il nostro un viaggio a ritroso nel paese che non c’è più, ma pieno di memorie che vanno dal piccolo cimitero alla grande chiesa con l’organo e i con i due campanili, e che balza in avanti per voler a tutti i costi trasformarsi in un sogno di paese a venire, vivo e allegro.
Esploriamo sia in presenza, a settembre, dopo aver immaginato i luoghi e lavorato da lontano, piegando e venendo piegati dai mezzi datici dalla comunicazione informatica e no. A Cosio c’è un ufficio postale, e alcuni progetti si sono risolti in cartoline, c’è una rete wifi e 4G e altri sono diventati NFT.
Siamo persone ricche di curiosità qui a Cosio. L’arte è questo per noi. Un campo di gioco serissimo, in cui le cose che si fanno vanno poi pensate e quelle che si pensano vanno costruite, in modo da essere fatte, messe in scena, e ricordate da chi le vede.
Trasformatorio non può che avere la forma di un laboratorio in cui seriamente, si gioca a costruire qualcosa che si finge di sapere perfettamente cosa sia, di averla progettata completamente, in modo concluso, lineare e che vada solo realizzata. Ed è così anche se il progetto è un fluido che si adatta a ciò che l’averlo introdotto crea nelle situazioni. Questa piccola finzione (prima di tutto con se stessi) collegata con la massima attenzione nell’ascolto del luogo, permette di costruire situazioni particolari, aperte ma con pochi gradi di libertà, in cui accomodare le migliori energie di tutti i partecipanti al gioco.
A Cosio d’Arroscia, come scopro solo dopo averlo considerato e scelto per le sue caratteristiche socio ecologiche, è nata l’Internazionale Situazionista.
È un fatto che ci ha portato a proporre come tema del laboratorio la SITUAZIONE che da sempre è l’unità teoretica di base sulla quale lavoro nelle mie drammaturgie e produzioni. E la situazione grazie al COVID e al mondo moderno si è sdoppiata creando, come al solito, al confine, un luogo interessante, “altro”, che andremo ad esplorare in un istante.
Prima di arrivare a Cosio ho conosciuto alcuni abitanti, in due videochiamate con l’amministrazione. Ho conosciuto Mariella, la playmaker della Pro Loco, guardando un intervista realizzata da una troupe giapponese.
Ho visitato le montagne con Google Earth, e cercato sentieri, storie, foto antiche, mappe. Abbiamo letto e scambiato informazioni sull’avventura situazionista, sulle ceramiche di Albisola, sulla resistenza per quei monti, sugli zingari a Alba negli anni ’50 e via via aggiungendo e sottraendo informazioni e suggestioni.
Pianificare la visita a Cosio è stato per tutti complicato. Quando ho fatto il primo viaggio l’Europa si scioglieva appena dalla stretta invernale del virus e ho dovuto fare tamponi, guidare quasi 20 ore filate per passare la Francia senza finire nelle maglie del coprifuoco. Arrivato a Cosio per facilitare gli altri in assenza non ho potuto fare a meno di stupirmi della distanza tra la mia immaginazione e la mia sensibilità: quanto sono più alte le montagne e bui i sentieri!
Lavorare con materiale umano, naturale, storico e immaginario da lontano non è semplice ma ha innescato delle esperienze illuminanti.
La Deriva per esempio è stata finalmente adottata dal Borgo. Proposta da Dierk Roosen e Vanessa Inggs che la eseguivano bloccati ad Amsterdam, proponeva agli abitanti un dressing code “genderfluid” e elegante, e un semplice codice per muoversi nel paese. Molti hanno partecipato, con ragazzi in gonna e rossetto e le ragazze in giacca. Tutti a giocare serissimi.
On line, collegati con telegram in audio e via streaming radio al mondo, tutti gli artisti partecipanti, erano nel medesimo tempo a girare di notte per le rispettive città. Si improvvisava, poeticamente e con azioni, e si rimandava in circolo informazione a cui altri rispondevano, creando associazioni e dipendenze impossibili da tracciare. Spariva il “prima” e il “dopo” e tutto avveniva in timelines antilogiche che avrebbero reso euforico Marinetti. La cosa incredibile è che a questo gioco, godendone in modo accessibile e esplicito, si giocava tutti: gli artisti presenti con e senza il corpo, gli abitanti di Cosio che partecipavano e quelli che ascoltavano e basta perchè via, collegati da facebook o da un whatsapp. Anziché scandalizzare la provocazione era stata accolta e rilanciata con umore allegro e serissimo.
Su questa zona intermedia, tra l’esserci con il corpo e l’esserci con emozioni, idee e sensibilità a Cosio d’Arroscia abbiamo dedicato un gran numero di esperimenti nelle tre settimane di residenze. Il gruppo di artisti partecipanti ha dato molto e molto ha ricevuto e piano piano qualcosa affiorerà con arte e influenzerà lo sviluppo delle loro tecniche come dei loro temi drammatici.
Ma cosa c’entra tutto questo con la rigenerazione?
L’attività del laboratorio e un attività finalizzata all’esplorazione di temi artistici, e fatta in una situazione come Trasformatorio, permette l’innescarsi di altri processi. È vera ricerca ma anche vera rigenerazione e vera spinta di innovazione attraverso la sperimentazione e ideazione di oggetti tecnici, con ripercussioni sull’UX design, sulla creazione di Software e di Hardware e sulla riflessione anche filosofica sulle arti in genere.
Lavorare sulla SITUAZIONE con cui si coinvolge tutti a partecipare a un processo di co-creazione funziona a livello di rigenerazione sia perché siamo tutti pronti a questo passo che è implicito alla nostra condizione, sia perché crea e prova modelli di collaborazione. La società rurale, remota, non ha una funzione marginale. Una volta aperta la strada tutti aspirano alla creazione, al gioco, che è trasformazione e ha per tema la trasformazione producendo esempi e modi di realizzarli.
A livello locale questo ha significato lanciarsi in attività di re-immaginazione dei vicoli, delle casette vuote, delle cantine e delle suppellettili, ma anche dell’economia e della logistica. Da una felice osservazione di Mariella del lavoro di Jad El Koury sono nate in un soffio, nello spazio tra i due laboratori, una quarantina di “stazioni” nel borgo: la casa del grano, la sartoria, il museo della banda, la cantina, il museo dei campanacci, l’installazione multimediale, con l’acqua che scorre davvero azionando un interruttore.
Dopo la pausa di riflessione sta nascendo un progetto di co-living che si svilupperà da quest’anno per permettere il mantenimento del borgo, la realizzazione di residenze artistiche e un piccolo incremento al mercato locale a KM zero. Non ancora la rinascita ma il seme, replicabile, organico, della rinascita del borgo. Lo si legge nell’entusiasmo delle persone che lì vivono e che oramai conosciamo per nome.
Trasformatorio lo vediamo sempre più come un enzima, che sfrutta il gioco tra immaginario e performance per innestare un mutamento di prospettiva ad una situazione e favorire la creazione. E presto riusciremo a trasformarlo in una macchina per la narrazione di storie che possa percorrere le maglie di reti e scoperte che andiamo costruendo facendolo.
Cosa serve d’altro?
Portiamo concetti che puntano logiche di trasformazione progettuali, come la permacultura; tecniche, come la moneta complementare o l’economia cooperativa, e artistiche, come una qualunque avanguardia. E prendiamo tantissimo. La tassonomia mnemotecnica dell’agricoltura tradizionale, il taglio di un vestito, il suono di alcuni materiali per creare risuonatori, soluzioni antiche per decidere in modo indelebile e “eterno” la validità di un patto prima delle blockchain incidendolo sulla pietra.
Queste esperienze riemergono in arte e tecnica, producendo valore reale e non solo percepito.
È ricerca che produce innovazione. Servirebbe anche una politica di trasformazione per i luoghi remoti? Certo, ma nel frattempo noi andiamo avanti così con piccoli passi, rimestando nell’immaginario.